I costi standard convengono: nella sanità – dove già esistono – così come nella scuola. Per questo motivo appoggio con convinzione la battaglia di Suor Anna Monia Alfieri sull’introduzione del cosiddetto “buono scuola”.
Dal mio punto di vista, però, la questione non viene ancora affrontata dalla giusta prospettiva. Il grande, innegabile vantaggio del costo standard non è – o non è soltanto – la libertà di scelta delle famiglie, quanto il miglioramento della qualità dell’istruzione.
La libertà è un valore importante, ma dovrebbe essere vista come conseguenza di un obiettivo ben più ambizioso: riportare il nostro Paese nella top ten dell’offerta formativa mondiale.
In Italia, oggi, non è la libertà a mancarci. Di libertà, talvolta, ne abbiamo fin troppa. Quella che manca, in Italia, è la qualità dell’istruzione. Secondo un’indagine dell’Economist Intelligence Unit, la scuola italiana è al 24° posto nella classifica dei 50 Paesi più alfabetizzati, ben lontana dalle capolista Finlandia e Corea del Sud.
Anche l’ultima ricerca OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) sul sistema scolastico europeo fotografa una situazione preoccupante: in quanto a libertà di scelta educativa, l’Italia si piazza all’ultimo posto assieme alla Grecia.
Non solo. Il nostro sistema risulta tra i peggiori in Europa per rapporto qualità-spesa.
In Italia, nelle istituzioni pubbliche, la spesa pubblica annuale per ogni studente delle scuole primarie e secondarie supera gli 8.000 euro, di cui lo Stato si fa carico al 100%. In Norvegia la spesa è superiore di circa il 70%, peraltro con una forbice quasi irrilevante tra pubblico e privato, rispettivamente 13.244 e 13.630 euro. Il risultato è che il Paese scandinavo si trova in cima all’elenco dei Paesi virtuosi per libertà di scelta sommata a qualità dell’istruzione.
Da noi, invece, la minor spesa non è sinonimo di maggiore efficienza: l’Italia oscilla tra il 16esimo e il 27esimo posto quanto a capacità di lettura, competenze scientifiche e matematiche, tasso di occupazione giovanile e percentuale di diplomati che lavora nel proprio campo di studio. La media di queste (in)competenze la vede così al 24esimo posto nell’UE… su 28 Stati membri.
La qualità della scuola italiana deve e può migliorare proprio grazie all’introduzione del “buono scuola”, che metterebbe gli istituti pubblici e paritari in competizione tra loro.
Se lo Stato italiano assegnasse un costo – e quindi un “buono” – a ciascuno studente, lasciando alla famiglia la scelta di dove spenderlo, le scuole – sia pubbliche sia paritarie – sarebbero costrette a migliorare la propria offerta e a renderla sempre più allettante. Si innescherebbe così un circolo virtuoso.
Come imprenditore so che più l’offerta è alta e diversificata più il mercato diventa competitivo. La conseguenza di una sana competizione è – da sempre – la crescita della qualità di un certo bene o di un certo servizio.
Prendiamo come esempio la sanità italiana, dove il costo standard è già realtà. Oggi il cittadino italiano può scegliere liberamente dove curarsi, perché lo Stato paga all’azienda ospedaliera convenzionata, che sia pubblica o privata non ha importanza, una cifra stabilita per ogni singolo servizio: intervento chirurgico, ricovero, esami clinici e così via.
Sappiamo che due tra i migliori ospedali italiani sono il San Raffaele di Milano e le Molinette di Torino: il primo è privato e convenzionato, il secondo pubblico. La qualità delle cure è quasi equivalente, con la differenza che – alla fine dell’anno – il bilancio del San Raffaele è attivo e quello delle Molinette no. In quanto azienda pubblica, i dirigenti sanno che i conti verranno ripianati, ma arriverà il giorno in cui la qualità dell’offerta delle Molinette – inevitabilmente – peggiorerà. Mentre quella del San Raffaele continuerà a migliorare, i cittadini lo sceglieranno sempre più volentieri, i bilanci registreranno una crescita e i servizi anche.
Lo stesso meccanismo competitivo andrebbe applicato all’istruzione italiana attraverso l’introduzione del “buono scuola”. Non tanto per non avere più studenti di serie A e studenti di serie B, ma per far sì che – alla fine – tutti i ragazzi possano godere di una sempre migliore qualità dell’istruzione: pubblica o paritaria, a quel punto, sarà solo un dettaglio.
Marco Boglione,
Cavaliere del Lavoro, nel 1995 acquista il Maglificio Calzificio Torinese (azienda per cui aveva precedentemente lavorato, proprietaria dei marchi Kappa, Robe di Kappa e Jesus Jeans), che si aggiudica all’asta fallimentare del 28 ottobre 1994. Costituisce così la BasicNet, diventandone anche il presidente. Nel 1999 BasicNet viene quotata alla Borsa Italiana. Nel 2004 la holding diventa proprietaria del marchio K-Way e, nel 2007, anche del brand Superga, di cui era già licenziatario mondiale.
Nel 2010 al portafoglio marchi del gruppo si è aggiunto AnziBesson, che il 22 dicembre 2016 è stato nuovamente ceduto alla famiglia Besson a seguito della decisione di BasicNet di concentrare sul marchio Kappa tutte le collezioni dedicate agli sport invernali[10].
Il 3 ottobre 2011 nel portafoglio marchi è entrato anche il brand di calzature Sabelt, mentre nel marzo 2016 BasicNet è diventato licenziatario mondiale esclusivo del marchio Briko (accessori per lo sci, il cycling e il running): il brand è stato acquistato da BasicNet un anno dopo. Nel luglio 2017 entra nel consiglio di amministrazione della Cardioteam Foundation Onlus e, nell’ottobre dello stesso anno, nel comitato di indirizzo della Fondazione per l’Architettura di Torino.
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Fonte Orizzonte Scuola
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